Sergio Bastianel, Appunti (1983)

Preghiera e vita abituale

Il momento della preghiera e la storia personale precedente

L’unità dell’esperienza personale fa sì che noi siamo nella preghiera normalmente come siamo nella vita per tutto ciò che riguarda la sensibilità, i modi di reagire e valutare, i criteri di preferenze, ecc.

Esempio: sembra che oggi sia molto diffuso uno stile di vita guidato per lo più dal criterio dell’immediato possesso e della immediata fruizione (ciò che chiamiamo “consumismo”). Se è così di fatto per le scelte correnti che riguardano i beni di consumo, lo stesso criterio sarà anche quello che orienta le scelte circa l’amicizia (occasionale, quando piace o serve, facilmente superficiale e non duratura, se non per circostanze fortuite), per il matrimonio (che non matura mai ed è sempre in crisi, o si rompe), per tutto quanto riguarda la giustizia (esposta all’emotività e al fascino momentaneo, più che frutto di ricerca e impegno duraturo), o l’attività politica (facilmente di parte e non guidata dalla cura per il bene comune)… Così sarà anche per la preghiera: se mi sento, quando ne sento il bisogno, quando appartiene ad esperienze interessanti; magari contrabbandando tale occasionale sentire con argomenti che dicono un atteggiamento autogiustificante (autenticità, essere se stessi…). Sarà forse facile decidere giornate di ritiro con il gruppo di appartenenza, ma non decidere 5 minuti di preghiera personale al giorno.

Le tentazioni nella preghiera ci vengono soprattutto dal di dentro di noi, come effetto della nostra storia personale concreta.

Esempio: se una persona è normalmente superficiale nella vita abituale, troverà mille pretesti e motivi per andare un po’ in fretta anche nella preghiera (pregare sì, ma…senza esagerare…); il tempo sembrerà facilmente e spesso troppo lungo; sembrerà eccessiva l’eventuale idea di approfondire la comprensione di un testo; si sentirà piuttosto inutile il proprio sforzo e inutile il dar peso ai dettagli, alle piccole cose come la fedeltà al tempo della preghiera stessa, ecc.

Ciò comporta che il criterio della cosiddetta “spontaneità” risulta per lo meno equivoco: viene spontaneo fare – anche nella preghiera – ciò che è in continuità con ciò che noi siamo diventati; e forse siamo un poco limitati e un poco anche peccatori…

Si tratta dunque di staccarci da noi stessi.

Questo non si ottiene, normalmente, se non cercando il positivo possibile: sottolineando ed esplicitando a se stessi dei criteri o motivi, come l’importanza degli obiettivi, il senso del bene, la fedeltà al Signore e la fiducia in lui, cercando di identificare quello che in realtà è tentazione, scusa, falso ragionamento, inganno, in modo da poter in pari tempo riconoscere che cosa invece veramente conta, aiuta, fa migliorare.

 

Il momento della preghiera e la storia personale seguente

L’unità di esperienza fa sì che la preghiera abbia una sua efficacia concreta nella mentalità stessa: il progresso nella genuinità della preghiera ci fa più liberi da noi stessi e tende ad inserire “quasi spontaneamente” nella nostra mentalità, nel modo di pensare, di valutare, di scegliere, di reagire, quei criteri, quegli orientamenti, quei modi di valutare che nella preghiera sono stati presenti, approfonditi, assimilati

Si tratta di convertire il cuore, cioè la nostra intelligenza e la nostra affettività.

 

In pratica

È importante esplicitare compiutamente, con calma e senza alcuna fretta, davanti al Signore, in colloquio con lui: che cosa veramente si cerca e perché; che cosa ci preoccupa e perché; i motivi che abbiamo per la nostra fiducia in lui; la richiesta del suo aiuto, con il riconoscimento della sua presenza.

Saper sostare, cioè soffermarci con la nostra attenzione, là dove troviamo elementi di meditazione e contemplazione, dove troviamo elementi di comprensione del Signore e di noi stessi in rapporto a lui, dove troviamo pace e serenità di cuore: nessuna fretta di passare oltre, o di cercare altre cose quando ciò su cui stiamo pregando ancora può alimentare la nostra preghiera; questo essere alimento della nostra preghiera è un dono attuale del Signore, non va sciupato quasi come decidendo di andarne a trovare altri, che non sappiamo se egli ci darà e che comunque probabilmente sciuperemmo come quello presente.

Chiedere quello che ci sembra di riconoscere necessario per la nostra vita: consapevoli che il Signore ha cura di noi, che del suo aiuto abbiamo bisogno, che con il suo aiuto è possibile la nostra vera conversione.

 

L’inizio e la conclusione della preghiera

La connessione tra il momento della preghiera e il resto della nostra vita mette anche in risalto la necessaria cura per il modo di iniziare e di concludere un tempo di preghiera: cura necessaria per “difendere” la preghiera stessa e per assicurarne maggiormente la fecondità in ordine ad un vivere quotidiano che sia “spirituale”.

  • All’inizio. Per “stare” con il Signore, occorre naturalmente non essere altrove. Questo “non essere altrove” non succede automaticamente per il solo fatto di varcare la soglia di una chiesa o di prendere in mano la Bibbia. Preoccupazioni, pensieri e sentimenti, programmi e cose simili ci accompagnano dovunque: e realmente noi siamo là dove è il nostro cuore (dove sono i nostri pensieri, sentimenti, preoccupazioni…). Non che la nostra preghiera debba essere asettica, senza sentimenti e staccata dalla vita, ma non dobbiamo illuderci: non è raro che, anziché portare la vita nella preghiera (per capirla con il Signore, affidarla a lui e decidere con lui su di essa), noi siamo dalla vita (con i suoi sentimenti, pensieri e preoccupazioni) portati fuori dalla preghiera. È necessario uno stacco interiore dal quotidiano, per creare lo spazio della preghiera. Nessuno ci garantisce che avvenga automaticamente. Non è questione di uno sforzo di volontà (anche se ci vuole la buona volontà, che però non basta da sola). È piuttosto questione di esplicitare quello che vogliamo fare, per darci la dovuta attenzione: ricordare e dire al Signore che in quel tempo vogliamo pregare e basta, affidare a lui la preghiera stessa; se è il caso, dire anche le proprie difficoltà a pregare, ricordando insieme i motivi di fiducia e di ringraziamento a lui. È un po’ come un raccogliere se stessi dalla dispersione per mettersi con verità davanti al Signore: con tutto quello che siamo, davanti a lui. Solitamente giova che lo “stacco” sia aiutato e significato anche fisicamente: può essere il cambiamento del luogo e/o della posizione del corpo, magari anche solo per il momento iniziale. La fantasia legata all’esperienza personale e alla sensibilità di ciascuno dovrebbe aiutare a trovare il proprio modo di esprimere anche questo.

 

  • Alla fine. Quando noi ci intratteniamo per qualche tempo a parlare con una persona, no interrompiamo andandocene di botto e senza un saluto. La preghiera ha bisogno di una conclusione che sia essa stessa preghiera: come un esplicitare il proprio rapporto con il Signore alla fine di un tempo dedicato al rapporto con lui. Può essere una breve valutazione (ma non fatta da soli con se stessi) della preghiera stessa, il ricordare che è terminato il tempo della preghiera esplicita ma non quello della vita di fede (affidando al Signore il rapporto con lui che continua nel quotidiano e chiedendo aiuto per questo), il fermarsi un attimo a considerare il dono che ci è fatto con la possibilità stessa della preghiera, il riprendere un elemento che ci è sembrato di capire o di sentire meglio, ecc. In ogni caso, l’ultimo momento della preghiera deve essere a modo di colloquio, nel quale, con parole nostre o con formule note, esprimiamo al Signore qualcosa di ciò che in quel momento siamo e sentiamo nel nostro rapporto con lui.

Il rischio della non-cura della conclusione è quello di sciupare l’efficacia della preghiera sulla vita, di favorire un nostro restare nella dispersione, di non sapere dove va la nostra preghiera. Inoltre, c’è il fatto che una conclusione ben curata come relazione con il Signore diventa realmente una introduzione alla vita concreta che segue, favorendo un corretto modo di assumerla da credenti, cioè di assumerla all’interno della nostra relazione con il Signore e come espressione di questa.

 

Suggerimenti circa il modo di pregare

Se si vuole aver cura della propria preghiera, sarà comunque necessario aver attenzione ai diversi modi in cui essa può essefre fatta, il che significa anche divenire accorti sulle varie possibilità e imparare a discernere ciò che più giova nella varietà dei momenti personali.

In generale, diciamo che il modo adatto di pregare dipende:

  • dalla storia personale di ciascuno (con le sue esperienze, il suo temperamento, le sue doti e i suoi limiti, ecc.);

 

  • dalla diversità dei momenti personali (non siamo sempre “gli stessi”, né sono sempre uguali le condizioni di vita e di impegni che abbiamo, o le circostanze concrete in cui viviamo);

 

  • dalla diversità degli “argomenti/temi” o dei testi che facciamo oggetto della preghiera.

 

Preghiera meditativa o contemplativa su testi della Scrittura

Spesso si tratterà di preghiera “prevalentemente” meditativa o “prevalentemente” contemplativa.

Pregare meditando significa soffermarsi su un testo riflettendo e ragionando sui significati, cercando di vedere le connessioni tra un elemento e un altro, facendo confronti, ecc.

Pregare contemplando è piuttosto un soffermarsi su un testo come “guardando” a ciò che propone, avendo l’attenzione sull’insieme, sul significato globale, su una figura o una scena raccontata; più che sforzo di comprensione è un lasciarsi coinvolgere, farsi partecipi, assimilare contemplando, interiorizzare “per presenza”.

Il testo stesso può essere (o risultare alla persona) più adatto per un tipo di preghiera che per l’altro. Dove c’è una scena, o un racconto, o un’immagine usata, è generalmente più facile la preghiera contemplativa. Quando invece il testo stesso è un ragionamento, una riflessione, sarà più facile la meditazione su di esso. Spesso, evidentemente, un brano contiene elementi dell’uno e dell’altro tipo, o può evocarli per connessione di significati: ciò significa che possiamo noi stessi orientarci nel tipo di preghiera sul testo, tenendo conto delle esigenze o delle opportunità legate al momento che stiamo vivendo.

 

Analogie con altri aspetti della nostra esperienza

Ho davanti a me una cartina topografica della città e devo andare in un certo luogo. Cercherò di stabilire esattamente dove si trova quel luogo, dove mi trovo io, quali possibilità di percorso ci sono; valuterò quale via sia probabilmente più breve, penserò alle probabili diversità di traffico; se ho intenzione di fare anche una passeggiata distensiva, cercherò di individuare la via più tranquilla, anche se un po’ più lunga, però senza esagerare… Magari avrò qualche incertezza e mi dovrò fermare, ripiegando la carta, a chiedermi cos’è che propriamente voglio fare (preferisco arrivare presto o passeggiare?) e perché… Questo è meditare

Ho davanti uno splendido tramonto (o un’alba, se preferite). Mi fermo e guardo. Non faccio niente altro che restare, tenendo il mio sguardo là e non altrove. Questo ha degli effetti su di me, e ne sono consapevole. Non mi serve a nulla, ma rimango, sento che mi fa bene. Quanto più ne sono consapevole e quanto più voglio quegli effetti su di me (di pace, di serenità, ecc.), tanto più mi fermo a guardare e basta (neppure penso al fatto che mi fa bene, lo so ma non lo penso, guardo il panorama. Sto contemplando il panorama.

Ho davanti un panorama, facciamolo in montagna questa volta. Dopo una salita e una lunga curva, arrivo ad un punto che mi apre davanti tutto un altro paesaggio, una nuova vallata, una prospettiva di monti che prima mi era nascosta. Mi fermo e respiro a pieni polmoni: è come se quelle cose che vedo mi entrassero dentro, mi riguardano, io ci sono dentro… Poi lo sguardo si ferma su un dettaglio del sentiero che continua. Ho in mente un itinerario che devo seguire, percorro con lo sguardo il tratto riconoscibile, valuto il tempo necessario, penso a come è fatto il tratto che conosco, mi domando come sarà il resto; so che ci sarebbe anche un altro giro possibile, vedo il punto in cui dovrei cambiare sentiero, penso al tempo, alle incognite, ai motivi di attrattiva; decido che non ha senso variare il programma. Lo sguardo si ferma su dettagli di rocce, sono molto belle. Torno a guardare l’orizzonte, mi giro a vedere il percorso già fatto e il tratto di panorama visibile sull’altra vallata, e di nuovo quello che mi sta dinnanzi. Penso alla giornata e al mio camminare, a questa natura nella quale sono immerso. Sento la gioia di questo vivere. Poi non penso a nulla, sto ancora lì a vedere e sentire. Poi riprendo lo zaino e riprendo il sentiero. E porto con me quella sosta e quel contemplare. Qualcosa di simile può essere la preghiera che si articola in momenti, diversi e internamente connessi, di contemplazione e di meditazione.

 

Preghiera con le (sulle) formule di preghiera abituali

Ci sono delle formule di preghiera che usiamo frequentemente: il Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria, il Magnificat; le preghiere eucaristiche, formule liturgiche comuni… Queste formule possono talvolta utilmente diventare il “testo” della nostra preghiera, in maniera analoga ad un brano della Scrittura

 

Senso e scopo di questo tipo di preghiera

  • Tali formule sono solitamente dense e pregnanti, esprimono elementi non secondari della nostra fede, provengono da una lunga e provata esperienza di preghiera. In ogni caso, di fatto le usiamo spesso.
  • Da un lato, con l’uso frequente e mnemonico, arrischiamo di farci abitudine e di perderle nella loro possibilità di aiuto per la personalizzazione della preghiera e quindi per la sua verità. D’altro lato, possono essere preziose.
  • Sono brevi, alcune le conosciamo a memoria, si adattano a molti momenti e situazioni interiori, possono essere di aiuto per pregare (e non in qualsiasi modo) nelle più diverse condizioni e circostanze personali.
  • Il fatto di esplicitare nella preghiera, con calma e attenzione, quello che tali formule esprimono, la possibilità di riferire il loro significato alla nostra vita, a ciò che comprendiamo nella fede, ci permette di assumere i significati veicolati dalle formule e di esserne consapevoli, così che anche in seguito, quando le usiamo nella liturgia o in altri momenti, le formule stesse siano per noi più vive e significanti, più efficaci per la preghiera personale, sottratte al rischio dell’abitudinario quasi meccanico.

 

Modo di farlo

  • Dopo esserci messi in preghiera (con la dovuta attenzione, come sempre), si inizia a prendere in considerazione ogni parola o frase, a seconda dei casi, riflettendo su di essa, cioè ragionandoci sopra e colloquiando con il Signore in merito, per richiamare alla memoria e ricordare e precisare a noi stessi tutto quello che significa, ciò che vi si riferisce, ciò che la spiega, ciò che mi può insegnare, ciò che mi suggerisce.
  • Finché si trova qualcosa su cui soffermarsi in questo senso, occorre evitare di andare oltre. Non ha importanza “esaurire” il testo, importa pregare.
  • Il tempo globale della preghiera deve essere stabilito prima.

Alla fine si prega con la formula intera e si conclude come al solito, con un colloquio con il Signore.

 

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